End of the Road festival – un racconto.
C’è un festival e festival: spesso si tratta di raduni mastodontici in cui si tenta di stipare più gente possibile in spazi risibili. E c’è pubblico e pubblico: non di rado, per molti, l’idea di festival fa rima con delirio alcoolico e, perché no, tossico. Non da ultimo, c’è musica e musica: i nomi gettonati attirano, di regola, più persone. Anche se gettonato non per forza significa di qualità. E qui ci ricolleghiamo al primo punto: il gigantismo. A molti, senza dubbio, piace immergersi in una contorta fiumana di corpi stipati in spazi sempre più ristretti, manco fossero sardine inscatolate; probabilmente quel calore umano, sebbene rancido e probabilmente sudaticcio, può essere persino amabile e commovente. Darsi poi al selvaggio delirio della festa, alimentata da fiumi di alcool e chimiche assortite, riporta molti indietro nel tempo, a quei riti tribali che, in fondo, albergano in ognuno di noi; insomma, tutto buono e giusto, per coloro che amano questo genere di emozioni.
L’End of the Road è l’antitesi del concetto finora elencato. Non che manchi la gente, ma le circa 6’000 anime (comunque poche, se paragonate, ad esempio, al celeberrimo Reading Festival o al Glastonbury) presenti sono disseminate sugli innumerevoli ettari di giardini, prati e boschi dei magnifici Larmer Tree Gardens, nel sud dell’Inghilterra. Non manca neppure l’alcool; la selezione di birre locali e il Cider Bus, che offre una miriade di tipi di sidro, non possono che soddisfare chiunque, e, non a caso, molti prendono d’assalto le postazioni gustandosi questi antichi nettari. Ma nessuno è lì con il l’intento di raggiungere stati deliranti; non a caso non si assiste a scene di gente in preda ai fumi dell’alcool. Punto più importante: la musica. Sarà questione di gusti (in fondo sempre di gusti si tratta), ma un festival che mette in fila nomi, in larga parte underground o giù dilì, quali Mark Lanegan, Low Anthem, Beach House e Midlake, oltre a innumerevoli altre meraviglie di ieri e, soprattutto, di oggi, merita almeno una visita. Questo vuol essere un breve diario, un resoconto parziale, di una tre giorni di musica, magia e ancora musica,musica e musica.
Giorno 1: la giornata parte presto, il richiamo del tipico english breakfast è irresistibile.
Dopo una sana colazione a base di fagioli, salsicce,bacon e uova, ci si da allo shopping. Che sia il tendone della Rough Trade, con la sua sfilza di cd e vinili, il Festival Emporium, magliette e memorabilia a volontà, oppure uno dei tanti Vintage Shops, non importa; in attesa dei primi concerti c’è l’imbarazzo della scelta. Dopo un the e un giro nel bosco, tra tende che offrono massaggi di ogni tipo, meraviglie fatte di luci e perfino un pavone che gira in indisturbata libertà, si fa un salto nella zona giochi, per una partita a ping pong oppure a cimentarsi con i cubi di legno di un Jenga gigante. Manca poco a mezzogiorno e il palco del Garden Stage chiama: in scena Mountain Man, un trio tutto al femminile che intona melodie ancestrali a cappella. Sembra di essere catapultati nel meraviglioso film Fratello dove sei? dei fratelli Coen. La prima impressione è subito ottima, soprattutto per il pubblico, rispettoso e silenzioso durante ogni esibizione: la gente, lo si intuisce fin dai primi istanti, è qui per la musica e della sola musica sembra nutrirsi. A seguire The Acorn, autori, qualche anno fa, dell’eccellente Glory Hope Mountain; qui il frontman e mente del gruppo Rolf Klausener si presenta in veste solista.
Il resto della band, dice, è in vacanza. Buon per loro. Esibizione toccante, applausi scroscianti. Non c’è tempo di assistere a tutto il concerto; di corsa al Woods Stage dove sono in scena i Poor Moon, nati da una costola dei Fleet Foxes; all’attivo hanno solo un EP di 5 brani, il disco sulla lunga distanza non uscirà che a settembre, e lo show, in parte,ne risente. La folla conosce poco o nulla di quanto viene proposto e anche la band non sembra particolarmente affiatata: da rivalutare in un futuro prossimo. Ma l’emozione cresce quando, di lì a poco, sullo stesso palco si presenta Jonathan Wilson, forse uno dei migliori chitarristi attualmente in circolazione; il suo recente Gentle Spirit è una meraviglia composta da tredici brani oscillanti tra la psichedelia tinteggiata di folk del Laurel Canyon anni settanta, CSN&Y in primissimo piano, e la lacerante malinconia dell’indimenticato Elliott Smith. Uno degli indiscussi apici del festival, tra ondeggianti wah-wah e sfrigolii di un Hammond scoppiettante. Tempo per una End of the Road Ale,la birra rossa testimonial dell’evento, e di fronte a noi si presenta una piccola, grande leggenda: Roy Harper. Nei tardi anni sessanta questo signore suonò insieme ai Led Zeppelin, che, nel loro terzo album, lo omaggiavano addirittura in una canzone. Con Stormcock (1971) Harper incise il suo capolavoro e, da allora, è sempre rimasto una star, seppur minore, del folk albionico; i suoi 71 anni non sembrano pesargli affatto e il concerto richiama a sé echi di un passato glorioso meravigliosamente trasportato nel presente. Chapeau. Un ascolto sfuggente alla psichedelia digrignante dei Dirty Three, con il violino di Warren Ellis a sfregiare l’aria umida della sera, un pasto veloce a uno dei tanti e allettanti stand etnici e non, e già siamo in attesa dei Low Anthem. La loro prima fatica, Oh My God, Charlie Darwin, si era messa in mostra qualche anno fa come una miracolosa perla di folk rurale a stelle e strisce dall’attitudine indie e da ruggiti vagamente rock; normale quindi che l’attesa fosse tanta. Il cielo si è frattanto tinto di nero e poche stelle ne screziano la pelle scura, quando sul palco, luci dimesse, strumentazione dall’aspetto antico, arrivano i ragazzi di Providence. Il concerto scorre sui binari dello stupore, soprattutto per la voce cristallina, pressoché perfetta, del leader Ben Knox Miller. Il momento più alto è indubbiamente l’esecuzione, intimistica, a tre voci, della splendida Charlie Darwin, un’elegia che si libra nella notte come una preghiera laica.
Fosse finito lì sarebbe stato un successo; purtroppo gli ultimi due brani, presentati come nuovi, rovinano totalmente l’atmosfera, con un rock caciarone, vicino a certi Muse, totalmente fuori dalle corde del quintetto. Peccato, anche se le magiche sensazioni dei primi 40 minuti restano immutate. Tempo di Beach House. Forti degli ultimi due dischi, perfetti esempi di dream pop aggiornato agli anni 2000, il trio, con una strepitosa Victoria Legrand alla voce e alle tastiere, si staglia su uno sfondo di luci, talora azzurro mare, talaltra rosso fuoco, inanellando una serie di canzoni in bilico tra malinconia e raggi di sole. Ma la giornata non si chiude qui; nonostante le gambe doloranti troviamo ancora la forza di goderci gli ultimi attimi dei Midlake; musicisti di grande talento, i sei texani, armati di ben tre chitarristi, riversano sulla folla il loro rock dalle radici country, per molti versi vicino a Neil Young con i suoi Crazy Horse, e raggiungono l’apice con Roscoe, brano d’apertura del loro penultimo disco. Bilancio della prima giornata: ottimo.
Rifugiamoci nei nostri sacchi a pelo, il sabato è alle porte.
Giorno 2: il meteo inglese, si sa, non sempre è dei più favorevoli. Eppure i raggi di sole che si fanno largo tra le nubi lasciano ben sperare. Dopo un rifornimento d’acqua (già, ci vuole anche quella, almeno per evitare la cirrosi epatica di primo mattino) il Big Top Stage, uno dei due palchi al coperto, ci attende con i belgi Creature with the Atom Brain. Reduci da un tour di supporto al grande Mark Lanegan, i quattro fiamminghi presentano un ottimo stoner rock ammorbidito da derive psichdeliche, a metà strada tra Black Angels e Kyuss. Il folk, i cui timbri soavi e ruggenti la fanno da padrona in quest’edizione, chiama, e noi accorriamo: sul Garden Stage si presentano Abigail Washburn e Kai Welch. A vederli paiono essere discesi direttamente dagli Appalachi, armati di chitarra acustica e banjo. La Washburn padroneggia quest’ultimo in maniera decisamente impressionante e le melodie antiche che inondano l’etere hanno il sapore della Carter Family a spasso per il misterioso oriente. Folk, ma decisamente venato di country, è anche il verbo dell’immenso William Elliott Whitmore, che pare un punk ma ruggisce come il Johnny Cash d’annata e, sebbene in solitaria, conquista il palco e la folla in pochi istanti: quello che si dice un “animale da palcoscenico”, un’ira d’iddio.
Un riposino fugace cullati dal sole sulle verdi distese di fronte al Woods Stage e attaccano gli Antlers: il loro Hospice (2009) fu un album fantastico e dal vivo ribadiscono energicamente il loro indie pop dai tratti post rock, granitici e al contempo delicati, come petali di rosa gettati nel turbine di un ciclone. Birra, sigaretta, Jeffrey Lewis & The Junkyard: una delle mie grandi attese si rivela un tornado dai tratti demenziali. L’attitudine lo-fi del quartetto, con canzoni sghembe ma sempre votate ad un’invidiabile senso della melodia, e l’inimitabile voce del frontman, contagiano una folla decisamente su di giri. Un pezzo di New York invade la quiete inglese e il rap fetente dedicato alla morte delle zanzare fa danzare e ghignare. Peccato solo non abbiano eseguito l’immortale Roll Bus Roll, ma si rifaranno con un concerto a sorpresa la sera stessa. Tramonto, e l’orizzonte che prende a tingersi di mille sfumature purpuree, coi raggi di un sole calante a specchiarsi maestosi sulla superficie irregolare delle nuvole. La colonna sonora è firmata dagli emergenti Alabama Shakes, quattro rocchettari provenienti da Athens, la città che diede i natali ai R.E.M.. Il loro sound? Rock sudista dalle forte tinte soul, con una vocalist che pare aver rubato le corde vocali a Janis Joplin.
Una sorta di incrocio tra la Allman Brothers Band e Sharon Jones; perfetti per l’orario dell’aperitivo, da tenere assolutamente d’occhio per l’immediato futuro.
Ora di cena: polletto arrosto per alcuni, piatto misto nordafricano per altri, e la tensione per l’imminente arrivo di Mark Lanegan cresce a dismisura. Sono un fan terminale, lo ammetto; amavo gli Sreaming Trees e amo ancor più le sue avventure solistiche (Field Songs, un capolavoro) o in coppia con Isobel Campbell o, ancora, con i Queens of the Stone Age. La notte ci avvolge, siamo in primissima fila quando calca il palco. Parte Gravedigger’s Song, una delle poche convincenti eccezioni dall’ultimo (deludente, per chi scrive) Blues Funeral: il quasi cinquantenne non si muove, non sorride, non dice una parola tranne qualche timido “thank you” tra una canzone e l’altra, eppure emana un carisma e una personalità in grado di mettere in soggezione perfino il vecchio Lemmy.
Sarà per la sua altezza, sarà per i tatuaggi che gli ornano le mani; no, è soprattutto per quella voce che, con gli anni, sembra invecchiare come il buon vino, un lamento filtrato dalle mille caverne del tempo che ti s’insinua nel cuore e nelle viscere e non ti molla per tutta la durata dello spettacolo. E pazienza se tre quarti dei brani provengono dall’ultimo disco: Mark Lanegan dal vivo sarebbe un’esperienza indimenticabile anche se si mettesse a cantare le filastrocche dei cartoni animati per un’ora di seguito. Mi corico con la convinzione di aver visto una delle ultime grandi voci del rock.
Giorno 3: ci svegliamo con lo scroscio della finissima e insistente pioggia inglese a battere sul telo della nostra yurta. Le premesse non sono delle migliori. La landa del festival si presenta piuttosto fangosa, ma il tempo avverso non scoraggia nessuno; siamo in Inghilterra, mica nel deserto del Mojave. Verso mezzogiorno il cielo grigio smette di sputarci in testa: copertina isolata, the caldo e il folksinger canadese Doug Paisley apre le danze. Una gradita sorpresa le canzoni di questo spilungone, a metà strada tra Dylan e i suoi connazionali Great Lake Swimmers, per una manciata di canzoni chitarra-voce che riscaldano la folla, decisamente rinfrancata dal set del songwriter. Meglio di così la giornata non poteva iniziare! Dal the si passa alla birra, dal folk in chiave moderna si fa un balzo indietro, ai tempi dei pionieri, con quello che è senz’altro il personaggio più curioso, singolare e divertente del festival 2012: Frank Fairfield. Vestito come un rappresentante di bibbie, porta sul palco, uno dopo l’altro, il suo violino, il suo banjo e infine la sua chitarra (che sembra provenire dall’ottocento, così come il microfono). In assoluta tranquillità, mentre la folla cresce di fronte a lui, accorda il violino, fa una risatina, cui ne seguiranno mille altre, borbotta qualcosa d’incomprensibile tra sé e sé, e da il via ad un concerto che ci trascina di peso in un saloon infestato da cowboy e puzzo di whiskey. Le corde dell’archetto saltano che è un piacere, e più saltano, più il suo stomp selvaggio (notare: solo piede che picchia sulle assi del palco e violino, eppure sembra un intero reggimento) si fa frenetico, più il suo sorriso annulla i folti baffi che gli incorniciano il viso. Musica antichissima, la sua, che fa la gioia di tutti e suscita incredibile entusiasmo: l’infinito applauso finale che il pubblico gli tributa riecheggia ancora adesso tra le dolci colline del Dorset. Il tempo di riprenderci da quest’ulteriore, entusiasmante scoperta che sul palco arrivano i Woods, già visti lo scorso anno da queste parti e unanimamente celebrati; rispetto al 2011 da 3 sono diventati 4, ma la sostanza non cambia. Il loro rock dalle forti tinte di un pop acidulo che trascende sperimentalismi rumoreggianti è qualcosa d’incredibile: i loro brani sono chicche agrodolci pressoché perfette e dal vivo acquistano una potenza senza pari. Inutile negare che la bravura dei musicisti aggiunge quel qualcosa in più ad un set imprescindibile e, giustamente, applaudissimo. Uno degli altri highlights di questo End of the Road 2012, e l’attesa per il nuovo album, in uscita a settembre, si fa insostenibile.
L’atmosfera grigia e nebbiosa della giornata pare ideale per accogliere, sul Garden Stage, le lanciatissime sorelle svedesi che formano le First Aid Kit. Il loro The Lion’s Roar(2012), col suo folk dai sapori country (mica per niente, in uno dei migliori brani del lotto si celebrano le figure di Gram Parsons e Johnny Cash, oltre alle di loro dolci metà Emmylou Harris e June Carter) mi aveva favorevolmente impressionato, ma non mi sarei certo aspettato di trovarmi sul palco due hippy scatenate che sciorinano con maestria le proprie canzoni. Una forza della natura inaspettata e proprio per questo ancor più convincente.
Inutile negarlo, al terzo giorno la stanchezza si fa sentire. Le gambe sono pesanti e la necessità di una doccia calda non è impellente, ma poco ci manca. Con una certa fatica ci trasciniamo al Big Top per i Deer Tick: il loro primo lavoro, The War Elephant, col suo indie folk dai tratti sixties è un disco da ricordare, nudo e crudo com’è, sincero e senza fronzoli. Ma un certo timore l’avevo, dopo aver letto recensioni poco entusiasmanti della loro ultima fatica ed averne ascoltato qualche estratto. Non vi è nulla di più bello che vedere fugati i propri dubbi; questo, ahimè, non è stato il caso. L’attacco di Ashamed fa ben sperare, ma di lì a poco il concerto si tramuta in una tamarrata senz’anima, tra riffoni e urla a squarciagola che mal si addicono alla band: peccato, McCauley III ha una gran bella ugola, ma la affossa in un set pacchiano e becero, che raggiunge il suo apice in un’insulsa versione di Scentless Apprentice dei Nirvana. Da dimenticare. Cena, un attimo di meritato relax, mentre la bruma inglese s’impadronisce della notte e un solitario falò fatica a infrangere la soglia delle tenebre, e via verso la minuscola Tipi Tent, dove, in chiusura, vanno in scena i Gravenhurst. La presenza scenica del trio è nulla, ma la delicata fragilità delle tristissime nenie di Nick Talbot, un nerd dall’aria pacioccona, culla coloro che sono accorsi in una nube di compassata malinconia. Un addio, scusate, un arrivederci coi fiocchi.
Sulle note lontane dei Grandaddy ci avviamo verso la nostra yurta, consci che l’anno prossimo saremo di nuovo a bordo: l’End of the Road è ben più di un festival, è un’esperienza irripetibile che, grazie a Dio, si ripete ormai da una decina d’anni. E, ad ogni edizione, si fa rientro a casa certi di esser stati parte di qualcosa di unico, per tre giorni di emozioni intense, reali, indimenticabili.
di Patrick Pox Walser