Kaspar Ludwig
Note e postille critiche di Marko Miladinovic
Kaspar Ludwig
Scultore e scalatore classe 1989, nato a Norimberga e cresciuto in Ticino.
Vive e lavora a Carrara, dove ha conseguito gli studi all’Accademia di Belle Arti.
Durante un viaggio in Italia ho fatto sosta a Carrara per visitare l’amico Kaspar Ludwig. Attualmente sta lavorando a delle maschere in legno commissionategli dall’artista francese Laurent Grasso (1972). Mi invita nel suo studio mentre discutiamo delle cose dell’arte e della vita. Di seguito una breve summa della sua opera.
“Il mio scopo nell’arte è di essere il più onesto possibile riguardo a me stesso e al pubblico interessato. In determinati lavori importa il background storico-culturale, a me no. Ogni mio lavoro è una primavera(!). La semplicità è la forma che la riassume, e per la quale ci si redime da mille sfaccettature e articolazioni. Quel che mi importa in fondo è l’intuizione con cui l’artista compone, che non può manifestarsi se non con sincerità e coerenza. Questa è per me l’autenticità”. Io non disprezzo l’arte concettuale (sic!)… A me interessa, oltre al lato estetico, che lo spettatore colga l’intuizione che ha dato origine all’opera.”
“Come artista, quando mi metto di fronte a una scultura, ritorno a quel pensiero originario… Se io mi rimetto al lavoro su questa testa, posso finalmente liberarmi dalla quotidianità, riprendere quel piglio… ma se quel pensiero originario non viene ritrovato… allora non va… l’opera chiede di pensarla in quel momento preciso, chiede, come se ci interrompesse da tutte le faccende: pensami ora.
Il togliere, da un materiale grezzo, il dare una forma, che è propria di un contenuto, in quel momento per me è essere nell’opera… farne parte. Per me questa testa ha a che fare con la precarietà, con il disfacimento del tempo, che durante la riduzione diventa il suo guadagno.”
“Il tempo si concepisce per forza… come la goccia su quel busto. Il tempo non esiste soltanto per me, ma per ogni elemento… anche per l’acqua. Da quando c’è questo mondo, l’acqua è sempre la stessa. Noi beviamo la stessa acqua che bevevano i dinosauri. L’acqua che ha bevuto Darwin è dentro di me. Le cose restano inalterate. Questi due momenti del tempo, soggettivo/oggettivo, li ritrovo in questa goccia di alabastro che scava questo “ciccione maledetto” (n.d.t. un busto in alabastro accanto a noi) che se ne sta lì, ad attendere il suo altare, il suo luogo.”
Coercezione di elementi primordiali
Autoritratto in nove metri
ovvero che cosa si fa quando si attraversa una porta?
Intorno a questa domanda si trova anche il senso della sua installazione/autoritratto. Kaspar Ludwig parla de “Il momento della porta”. Sempre troviamo delle porte dinanzi a noi e negli spazi che abitiamo e viviamo, si può dire allora vi sia una coscienza nell’attraversare una porta?
“Tanto il fanciullo quanto l’uomo vedono delle porte in tutto ciò che vivono e imparano: ma per quello sono accessi, per questo sempre solo passaggi.”
F. Nietzsche, trad. Colli/Montinari
“Ho disposto cinque porte, composte da materiali di recupero, in linea retta che vanno a formare un susseguirsi di passaggi conseguenti. Sintesi dei tre anni passati all’Accademia. Le porte non possiedono legame una con l’altra e ciascuna è alterata tramite una tecnica e un approccio differenti. In linea sulla stessa pedana, le porte comunicano tra loro dando vita ad un racconto che non è altro che il mio ritratto”.
Di seguito la descrizione/attraversamento dell’autoritratto
1
Composta da moduli di ferro 15x15cm, di cui ogni modulo contiene impressa una chiave, “mille chiavi, mille accessi, mille possibilità di interpretazione e nessuna di queste ha più o meno valore di un’altra”. Priva di serratura, così come di soluzione. Il sostegno della porta è composto da tre binari di una vecchia tratta ferroviaria. Questi tronchi appartenevano a una via, sono passati “da essere una vita che porta fino alla sua trasfigurazione fino diventare un passaggio. Come se avessi dirottato una vecchia strada”. Un binario morto è la porta finale dalla quale cominciamo. “Molte persone di fronte a questa porta, sentono una forte sensazione. Forse per il suo peso o per la sua apertura”.
2
Una porta di legno crepata e sette maniglie. “Rappresentano le possibilità”. Sul retro ciascuna è collegata tramite corone, molle e catene di bicicletta. Tutte le maniglie funzionano all’unisono. “È più rognoso, ostico, severo”. Scelgo una maniglia, scatta il congegno, si apre la porta. E io che pensavo di sbagliare.
3
Formata da cinque finestre orizzontali, qui levate, per venire rimpieti gli incavi da altri elementi. Dei sassi (in preferenza scarti di laboratorio in marmo); una gabbia di due canarini liberati “rappresentanti il vitale” e del muschio in quest’altra.
“ll muschio cresce nei luoghi più intimi di un bosco. In Germania sono chiamati Die moor, i boschi di pini in cui questo muschio cresce, diventa come un tappeto. Si dice che inciti la gente a togliersi le scarpe per passeggiarci sopra. Così i viandanti che rispondevano a questo richiamo proseguivano non più per il sentiero bensì, seguendo questo tappeto di muschio, disperdendosi nel cuore del bosco”.
E che rapporto hai tu con il bosco? Gli chiedo in mezzo a questa porta: “In un bosco non mi racconto cavolate”.
Proseguendo, la quarta finestrucola è composta da legni presi dalla spiaggia. Insabbiati e satinati e legati tra loro da un fascio di corda “È tutto quello che il mare ha riportato indietro… vengono dall’altra parte del Mediterraneo o chissà dove…”.
Si sofferma a osservare la sua opera: “I due riquadri comunicano tra loro: in uno la natura più intima del bosco, nell’altro qualcosa che è stato spazzato dal suo elemento e riportato alla terra. La congiunzione di tutto, come già detto, è l’acqua”.
L’ultimo riquadro, fatto di carbone “rappresenta da un lato la fine del legno, la morte del legno, e d’altra parte il legno si preparara a ritornare pietra, come nel primo dei riquadri di cui questa porta è composta. Ogni riquadro è un ciclo vitale… forse potrei riprodurre questa porta circolarmente…”.
4
Composta da 760 aghi disposti in maniera modulare e che inchiodano un suo vecchio maglione “da sera invernale… in cui ti senti pigro, sai,… quelli dei più comodi”.
Un maglione inchiodato, “molti hanno detto che questa porta mi rispecchia… ho decomposto questa comodità, innervosito quel momento rilassante, interrotto il pensiero, l’ozio, la meditazione”. La lana sfilacciata ricrea una nuova via, trova una strada tra i 760 aghi. Il retro della porta è un rudere bruciato, una facciata mancata, “Volevo riportare quell’impronta, ma poi mi sembrava inutile”.
5
Ritorna la fotografia di apertura, quella del suo autoritratto in bronzo che funge da batacchio. Bussiamo picchiando con un anello al naso sui suoi denti chiedendo di farci aprire. “Ho la faccia da bastardo. È sorridente sì, ma contiene anche del timore”. In alto delle chiavi componevano la scritta kero, la tag con la quale si firmava da ragazzino.
“Per me è la prima volta che riporto la mia tag. Far reincontrare qualcosa che io ho lasciato, di cui mi ero stufato, con ciò che sono ora… non posso nasconderlo a me stesso. Qui volevo mostrare questo mio lato, ritrovarlo, perché era una passione, un’amicizia, la mia gavetta, l’innesto all’arte. Si andava sempre a dipingere il sabato sera…”
Davanti alla legge
Davanti alla legge c’è un guardiano. Davanti a lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può concedere di entrare. L’uomo riflette e chiede se almeno potrà entrare più tardi. «Può darsi» risponde il guardiano, «ma per ora no.» Siccome la porta che conduce alla legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l’uomo si china per dare un’occhiata, dalla porta, nell’interno. Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ridere: «Se ne hai tanta voglia prova pure a entrare nonostante la mia proibizione. Bada, però: io sono potente e sono soltanto l’infimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io». L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, pensa, dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre, ma a guardar bene il guardiano avvolto nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta,la lunga barba tartara, nera e rada, decide di attendere piuttosto finché non abbia ottenuto il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni.
Fa numerosi tentativi per passare e stanca il guardiano con le sue richieste. Il guardiano istituisce più volte brevi interrogatori, gli chiede notizie della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande prive di interesse come le fanno i gran signori e alla fine gli ripete sempre che ancora non lo può far entrare. L’uomo che per il viaggio si è provveduto di molte cose dà fondo a tutto per quanto prezioso sia, tentando di corrompere il guardiano. Questi accetta ogni cosa, ma osserva: «Lo accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa.» Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano quasi senza interruzione. Dimentica gli altri guardiani e solo il primo gli sembra l’unico ostacolo all’ingresso nella legge. Egli maledice il caso disgraziato, nei primi anni ad alta voce, poi quando invecchia si limita a brontolare tra sé. Rimbambisce e siccome studiando per anni il guardiano conosce ormai anche le pulci del suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell’oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vive più a lungo. Prima di morire tutte le esperienze di quel tempo si condensano nella sua testa in una domanda che finora non ha rivolto al guardiano. Gli fa un cenno poiché non può ergere il corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano è costretto a piegarsi profondamente verso di lui, poiché la differenza di statura è mutata molto a sfavore dell’uomo di campagna. «Che cosa vuoi sapere ancora?» chiede il guardiano, «sei insaziabile.» L’uomo risponde: «Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?» Il guardiano si rende conto che l’uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida: «Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo.
Franz Kafka, Davanti alla legge, Mondadori, Milano 1970