Swans – The Seer

Swans
The Seer
Young God – 2012

In concerto a Losanna, 4 dicembre 2012 @ Les Docks

Siamo già un ritardo. Ma non è facile affrontare gli Swans. The Seer è uscito in agosto, quarta era, quarto doppio album, un oggetto che digerisci in un altro momento, c’è molto percorso da fare.  Da quando hanno pubblicato il loro primo album nell’84 “Filth”, sono passati altri 12 album. All’interno si profilano le collaborazioni con Akron/Family, Karen O dei Yeah Yeah Yeahs, Low, Ben Frost.

Niente da fare, pur comunicandosi come monolito di improvvisazione e alternanze di generi, è considerato un’opera incompiuta. Lo sono anche tutte le tracce. La sensazione sicuramente è questa, l’ascolti e ti sembra che non è mai neppure iniziato. Un grande prologo a qualcosa di terribile, che grazie a Dio non arriva. Sembra di avere a che fare con una censurata desert session, un ritiro e un ritrovo rituale, Lunacy si ripete come per affermare la pazzia della parola stessa, l’ansimare di Mother of the World che più che essere un respiro di ossigeno pulito è un affogare nel putrido e nel petrolio.
Il primo disco è diviso a metà da un taglio profondo di 32 minuti e 14 secondi.  The Seer: il veggente. Nel pezzo le uniche parole sono “vedo tutto, vedo tutto”. Come se avesse visto la terribile verità, quella che se la conoscessimo daremmo fuori di matto. Come scrive Palahniuk, come avverte Nietzsche, come racconta Von Trier. Non siamo pronti. Diamo importanza a tutt’altro. A inventarci reti di salvataggio per le nostre giravolte favolose.

Leggi le parole di The Seer Returns, e capisci di più. Potrebbe essere l’apocalisse che tutti attendono, ma qui è dolcemente atteso e vissuto. Ovunque le parole e la musica sono cosparse di raggi di luce e verità, che crollano, di corpi e di interscambi di energia.

Il disco è sicuramente una completante evoluzione della loro Boom Music newyorchese, quella danza macabra a ritmi di colpi che accompagna una società capitalista nel pieno del suo cul de sac, che si trova a graffiare invano agli ultimi muri, o per dirla con Riccardo II, “come queste vane, fragili unghie possano aprirsi una breccia tra le strutture granitiche di questo duro universo – le mura scabre della mia prigione.”

È una bellezza ascoltare la voce rauca americana di Michael Gira. Rude, potente ma cauto, sovrapposto a scambi con le sue muse. Uomini o donne che siano.

Il secondo disco è la ciliegia sulla torta. Una canzoncina dolce per iniziare e poi una fantastica cavalcata demoniaca. Si sente il bruciore, le fiamme, il cielo che cade e poi la fine, il lunghissimo capolavoro sonoro di The Apostate.

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