NITON – Tiresias ****

Coniglio-recensione-4

Pulver Und Asche Records

Niton, il progetto nato dalle menti di Zeno Gabaglio, Enrico Mangione (El Toxique/Mr. Henry) e Luca Martegani (Xelius Project), giunge al secondo parto, Tiresias, seguito dell’esordio omonimo uscito all’incirca un anno e mezzo fa. Lì si parlava di estrapolazioni improvvisative nate dalle insubriche Drone night ospitate a casa da Xelius, estrapolazioni che apparivano coese e tutto fuorché estemporanee. Il trio aveva quindi senso di esistere e lo ha oggi, teso tra “…tre differenti vie del suono analogico: quella degli archi classici, quella delle tastiere pre-digitali e quella dell’oggettistica resa strumento.” .
Conosco da tempo due delle tre anime che compongono Niton, ovvero Zeno ed Enrico. Persone e musicisti estremamente differenti, delle quali posso dire che le espressioni artistiche finora effettuate restano a mio parere un poco sotto le loro potenzialità.; detto questo Tiresias mi sembra essere fascinosamente a fuoco e dotato di solide spalle.
Tiresias è album spesso e tosto: 12 brani, per un viaggio lungo più di un’ora da non prendere sottogamba. Via, si parte, con Uploud, tra ronzii e rintocchi d’archi a creare strati di tensione, quella tensione che ti spinge a controllare ossessivamente lo specchietto retrovisore, nel caso i malintenzionati fossero dietro di noi o, puta caso, addirittura sul sedile posteriore. L’insieme è straniante, vien voglia di spingere a fondo l’acceleratore e lasciarsi sorprendere, temendo il peggio. Con Neeing i toni cambiano, ci si rifugia in una psichedelia umida (che da queste parti garba parecchio), con battiti in lontananza e paesaggi offuscati dalla nebbia…quando questa si scopre non troviamo però delle foreste ma dei paesaggi industriali e freddi come lame di rasoio. Sembra di essere tornati negli anni ’80 con la puzza di Rutger Hauer dietro l’angolo. Battiti pulsanti e squarci gelidi. Bewno abbassa le pulsazioni, l’acqua si cheta ed è come un’alba di un futuro distopico, in cui sono le cavie ed i topi ad essere usciti dai labirinti in cui li si tenevano rinchiusi e si godono le gioie della vita.
In Cetk Irkk c’è una tromba a prendersi la scena, piangendo lacrime nel retro di un night club. Lirica e drammatica sembra uscita dal Café Flesh di Sayadiana memoria quando la nottata è ormai finita…con Had is the weakest point siamo lì, elaborando i detriti, quasi a preparare la partenza di Kalle che, dopo uno stentato avvio si alza dando luce ad un paesaggio che sembrava ormai compromesso, un’ascesa verso una speranza futura o forse solo l’agognato amplesso che lascia inebetiti, come quelli che Tiresias provò da ambo le parti dello spettro (egli fu infatti l’indovino che, per sette anni della propria vita, visse nel corpo di una donna). Poi il break, con OSC 18, lenta modulazione che indugia e si sofferma sul post-(coito?). C’è della malinconia, a manciate, quella che affossa. Poi si inizia con la terza parte del lavoro, con Joule, a ridurre i brandelli di umanità sopravvissuta dentro una pressa, con l’ansia che ci riavvolge mentre percorriamo gli Unsacred ground, in maniera perfettamente speculare all’inizio del viaggio. C’è più luce certo, ma abbaglia e non chiarisce la via, perpetrando il viaggio dentro un Moto Ignoto pericoloso ed in cui avvolgersi lasciandosi andare ai colpi ed ai battiti. Siamo in completa balia degli agenti esterni, senza più la possibilità di centrarci ed affrontare come prima gli eventi. Una fase dopo l’altra, senza comprenderla, in un crescendo di input a cui reagiamo con automatismi fuori fase.
Con Kogiidae siamo giunti al termine e possiamo vedere, sebbene ancora scossi, la strada fatta. Parla di conoscenza, di incontro, di violenza. Forse durante questi movimenti Tiresias è cresciuto ed è cresciuta, si è conosciuto maggiormente, odiando ed amando se stesso (se stessa) e l’altro (l’altra).
L’ennesimo viaggio iniziatico, di metallo e di carne, che è ormai diventata la nostra vita.
Gran disco.

A cura di Vasco Viviani.